LA 18° BIENNALE ARCHITETTURA 2023 DI VENEZIA

Ho avuto l'opportunità di visitare la 18ª edizione della Biennale di Architettura a Venezia, rappresentando la rivista svedese Filmbasen. Sapevo delle critiche che circolavano riguardo all'evento, ma ho cercato di mantenere la mente aperta, evitando di leggere le interviste e i commenti dei critici prima di andarci. Ho avuto così un'impressione estremamente positiva: molte proposte mi hanno colpito favorevolmente, così come l'organizzazione curata da Lesley Lokko, la curatrice dell'evento.

Dopo la mostra mi sono letto le critiche, come quella di Patrik Schumacher, dove in sostanza si dice appunto che alla Biennale Architettura 2023 manchi appunto l’architettura. Sono stati messi in luce, secondo il noto critico, molti aspetti sociali e economici, umani, si sono rappresentati popoli e culture lontane dall’occidentalismo, ormai imperante dagli Stati Uniti alla Cina – ma non ci sono progetti.

La seconda critica che viene mossa è l’intellettualismo, il fatto cioè che le (poche) proposte risultano ideali e poco concrete. La terza è il ricorso a pratiche definite “pseudo artistiche” come workshop, dibattiti, conferenze, party – che secondo i commentatori poco hanno a che fare con la vera architettura. L’ultima critica è quella che sottolinea la mancanza di unità dell’insieme, tante cose a spot, ma senza che si comprenda in fondo il senso del tutto.

A me è sembrato che queste critiche abbiano il fiato corto e siano vittima di un pregiudizio. Siano in sostanza critiche che arrivano da un modo obsoleto di intendere l’architettura che è quello del costruire, del progettare. La vera sfida per l'architettura oggi è riflettere su come costruire meno, o persino immaginare una architettura senza nuove edificazioni. L'urbanizzazione inarrestabile e la crescita della popolazione richiedono un nuovo approccio. Quale ruolo dovrebbe avere l'architetto oggi e negli anni a venire? Questa è la domanda fondamentale a cui dobbiamo rispondere.

Prendiamo quella che, secondo me, è stata una grande mossa di greenwashing e niente più: il bosco verticale dello Studio Boeri a Milano. Qualcuno può oggettivamente credere che sia un progetto ecologico? Due torri di 80 e 110 metri ricoperte di vegetazione. Immaginatevi solo cosa può costare in termini energetici. Siamo davvero convinti che quella sia la via per la cosiddetta “riforestazione metropolitana”?

Lesley Lokko su tale argomento è stata piuttosto chiara: “Gli architetti non costruiscono edifici, ma società, competenze e conoscenza. L’architetto oggi deve essere un agente del cambiamento.” Affrontare il problema climatico è essenziale e richiede una rappresentazione dell'architettura che superi il modello attuale basato sullo sviluppo economico e sulla competizione.

Anche la scelta di una curatrice donna di origine africana può essere vista come una mossa furba al giorno d’oggi, ma la Lokko ha saputo portare a Venezia 89 artisti per la maggior parte africani o provenienti dal Sud del mondo, creando un cambiamento significativo rispetto alle precedenti edizioni.

Da questo cambio di paradigma (che la curatrice si è affrettata a dire non essere idea sua, ma un processo in realtà in atto da diverso tempo e che lei ha cercato di rendere visibile) vengono meno le critiche mosse alla Mostra. Il fatto che non ci sia unità, per esempio. Quando le proposte sono plurime, e non può essere che così, cresce la consapevolezza che questo insieme sia una forza e non un limite. Cade anche il discorso delle pratiche pseudoartistiche quando si comprende che è proprio nell’incontro e nel dibattito che si forma il cambiamento, anzi è questo il cambiamento. Anche la critica di intellettualismo, che cioè le proposte siano ideali e poco pratiche, perde forza. La prassi, il pragmatismo, sono necessari per realizzare i sogni, ma prima appunto devono esserci i sogni. E prima ancora dei sogni bisogna conoscere la realtà vera del mondo, non solo quella parte, sempre più minoritaria in termini demografici, del ricco Occidente. Una cosa che gli intelligenti critici dalla manifestazione hanno forse dimenticato.

Ma veniamo alle proposte, segnalo quelle che mi sono rimaste più impresse, senza aver visto tutto e senza la pretesa di essere esaustivo.




INFRAESTRUCTURA UTÓPICA: LA CANCHA DE BÁSQUETBOL CAMPESINA





Il padiglione del Messico, negli spazi dell’Arsenale, presenta una frazione in scala 1:1 di un campetto da basket che è allo stesso tempo una corte contadina di un villaggio messicano. Proprio per il contesto rurale e indigeno in cui è stato costruito è molto di più della replica di un campetto da basket occidentale, ma diventa il punto focale della costruzione di processi politici all’interno della comunità. Non un uso solo sportivo, ma punto di incontro, di discussione, di vero e proprio uso.

Una infrastruttura che è stata riconvertita in spazio per processi polivalenti di decolonizzazione nelle comunità indigene del Messico. La ricerca condotta dallo studio APRDELESP (https://aprdelesp.com/) indaga gli adattamenti e le trasformazioni che hanno permesso a questi spazi di trascendere la loro funzione originaria facendo di un campetto da basket riconvertito l’unità fondamentale di costruzione di identità indigene contemporanee.

SURFACING - THE CIVILIZED AGROECOLOGICAL FORESTS OF AMAZONIA


Durante una ricerca di giacimenti auriferi in Amazzonia, ci si è imbattuti in una scoperta imprevista, l’esistenza di 26 siti archeologici con una fitta rete di strade rialzate, canali e insediamenti suburbani che dipingevano un quadro vivido delle civiltà che hanno prosperato nella regione amazzonica per millenni. Vere e proprie città che mostrano organizzazione sociale e pratiche di ingegneria del paesaggio che sfidano l'idea di una foresta amazzonica totalmente selvaggia.

Utilizzando la tecnologia LiDAR che permette la rimozione digitale della copertura arborea della foresta sono venute alla luce queste antiche megalopoli collegate da strade e canali. Una antica urbanizzazione di cui si era persa la memoria e che danno una immagine completamente diversa di una vasta regione considerata fino a ieri come “luogo selvaggio”.

Il progetto dello studio equadoregno EstudioA0 (https://estudioa0.com/) mira a puntare l’attenzione su questa scoperta volutamente passata in secondo piano perché contrasta con le mire espansioniste dell’industria estrattiva che vorrebbe sfruttare quei luoghi.

Suggestivi coni in tessuto ricordano i 26 siti finora scoperti mentre, alle pareti, pannelli di rafia, perline di vetro e semi raffigurano le civiltà che si sono susseguite o hanno convissuto nel grande bacino amazzonico.


Leonardo Tonini per Filmbasen