Due giorni al Kilowatt Festival 2024
Ho iniziato il festival di Sansepolcro venerdì 12 con La belva nella giungla, trasposizione video teatrale da un racconto di Henry James che io ho sempre pensato un po’ troppo inglese come autore (sebbene fosse nato a New York) e quindi a volte un po’ noioso. Un uomo, una donna alle prese con il non detto, o meglio con il non capito di una coppia. Il pregiudizio che ci porta a pensare che le cose siano diverse da come ci appaiono. James sembra dirci che le cose sono effettivamente come appaiono, anche in una coppia, ma che è più facile costruirsi un alibi piuttosto di accettare di amare senza riserve. Si viaggia con il freno tirato, si preferisce non vedere le realtà che è fatta di superfici più che di illusorie e inesistenti profondità. Un uomo non vede di essere amato da una donna. Vuole essere amato, lo esige, pensa che gli spetti di diritto, come un bambino dalla sua mamma, ma intanto non vede (non vuole o non riesce) il miracolo di una persona che, senza alcun dovere verso di lui, lo ama. Antepone sempre il se stesso alla realtà e continuamente chiede e si chiede se non ci sia qualcos’altro, qualcosa di non detto, un segreto che attende, come una belva nella giungla, il momento per balzare dal buio, per distruggerlo. Ripensa a un momento antico, al momento in cui i due si sono incontrati, forse a Roma, o a Napoli, forse in estate, non ricorda. Anche questo non ricordare i dettagli è il segno di un non vedere il miracolo di un incontro, due anime tra milioni di individui che su un intero pianeta si vedono, si incontrano, si amano. Non vedere l’enorme probabilità che l’incontro avrebbe potuto non avvenire, mentre invece è avvenuto, quasi contro ogni probabilità. L’uomo tutto questo non lo capisce o lo capisce troppo tardi, rimasto solo, da vecchio, davanti alla tomba di lei. Un testo duro, nella sua eleganza, molto duro, spietato, dove l’uomo ne esce letteralmente a pezzi, indifendibile nella sua tragica cecità.
Lascio l’auditorium Santa Chiara rimuginando quanto ho visto. Bravissimi gli attori, Anna Della Rosa e Graziano Piazza, molto bene anche per la regia di Federico Tiezzi con il fine stratagemma che nel momento in cui gli occhi di lei o di lui non guardano il compagno, l’immagine del compagno si sfuoca, come se a definirci fosse lo sguardo dell’altro, come in effetti è. Il festival ha questo di veramente importante, che ti porta su percorsi che altrimenti non avresti mai scelto. Henry James autore troppo inglese, ho detto, noiosetto; se avessi seguito il mio pregiudizio, quando avrei trovato questo gioiello?
Il secondo spettacolo, La notte, è durato un solo minuto ed era per uno spettatore alla volta. Un’usanza in realtà più nota all’estero che in Italia dove si tende a massimizzare le risorse e dove il numero degli spettatori sembra talvolta essere l’unico parametro per decretare il successo o l’insuccesso di uno spettacolo. In realtà è da Grotowski che le cose non stanno più così, ma è dura farlo capire a certi assessori. In ogni caso, il festival è anche il contenitore giusto per queste cose.
Che succede in quel minuto? si attraversa una tenda nera e si va indietro nel tempo e si entra contemporaneamente in un quadro. A me è capitata La resurrezione di Piero della Francesca, il quadro è proprio a due passi da noi, nel museo civico. Corpi addormentati nella semi oscurità e, seduto su di un altare, un bambino con gli occhi spalancati, unico sveglio. Un urlo squarcia il silenzio. Un tableaux vivant molto efficace, che rappresenta bene uno dei quadri più famosi del Rinascimento italiano. Un Cristo che vince la morte e ci risveglia dal sonno, che ci riporta alla realtà, che ci fa uscire dai nostri sogni, cioè dai deliri del nostro egoismo, che usiamo per non voler vedere. Vedere cosa? Un bambino, unico sveglio, che a me a fatto venire in mente i bambini di Gaza e di tutte le guerre. E poi l’urlo, un urlo di dolore, non di gioia. Meglio tornare ai nostri sogni: più facile è non vedere.
Come se niente fosse, di Davide Grillo, mi è piaciuto meno. Vero che esiste anche la leggerezza e questo spettacolo voleva essere leggero, ma i millennials (i trentenni insomma) dovrebbero uscire da questa etichetta che si sono auto appiccicati addosso. L’intento è dichiarato, parlare appunto del disagio di essere millenials, di crescere in una società che ha tutto tranne la speranza e il senso di ciò che si sta facendo e del perché o del per chi lo si fa. Ma una classificazione sociologica, più giornalistica che altro, non è una ideologia. A me viene in mente Zeno Cosini che tutti prendono per un inetto e che invece inetto non è, mentre il fidanzato della sorella, che tutti prendono per quello sveglio, alla fine si suicida fingendo un suicidio che però gli riesce. Leggero, forse troppo, che rischia a volte di scivolare nel banale. L’autore, Davide Grillo, ha delle potenzialità, secondo me, potrebbe smarcarsi dall’idea che sia necessario essere indulgenti con il pubblico (con un’idea di pubblico).
A duet, di Dovydas Strimaits, prova a unire (riuscendoci benissimo) il classico e il contemporaneo. Balletto classico, una audace e spossante coreografia basata sul Petit Allegro con tutto il suo corredo di passi. Il contemporaneo entra in scena quando i ballerini (gli ottimi Clara Davidson e Ibai Jimenez) indossano delle cuffie e la musica sparisce per noi spettatori. Ora si sentono solo i passi e i salti degli atleti sul palco. Inizia una doppia tortura, il lunghissimo ed estenuante balletto sul palco e noi spettatori privati della musica intorno al palco. 45 minuti dove i ballerini non si possono nascondere, dove a noi arriva tutta la fatica, il fiato corto, il peso dei corpi che atterrano sulle assi, il sudore, la danza muscolare e la splendida coreografia di questi due corpi che si sfiorano senza mai toccarsi.
L’ultimo spettacolo della giornata è il piacevole e ben costruito La lunga strada di sabbia, un reportage che Pier Paolo Pasolini fece tra il giugno e l’agosto del 1959 per una rivista. Qui vanno fatti i complimenti agli interpreti, a Sandro Lombardi per la lettura pulita e a Andrea Rebaudengo al piano, ma soprattutto alla brava cantante Monica Bacelli per le canzoni, diverse per ogni regione toccata da Pasolini nel suo viaggio, anche con dialetti diversi, e con il finale necessario di Cosa sono le nuvole di Modugno. Sconvolge però la bravura di Pasolini. La riconosciamo anche in un testo d’occasione come questo, non letterario, ma giornalistico, scritto in viaggio, fatto di brevi flash che ci fanno entrare in quel viaggio e dipingono in modo nitido le situazioni e i personaggi incontrati. Gianni Agnelli che con “cortesia celestiale” vieta al giornalista di fotografarlo; Fellini che chiama tutti per vezzeggiativi quasi fossero amici mentre in realtà aveva già deciso lui per tutti. Un Pasolini ancora felice, come dice l’introduzione allo spettacolo, lontano dal tragico Pasolini finale e pieno di amarezza degli anni 70.
Tutto ricomincia il giorno dopo con La cantautrice fantasma, un’indagine appunto patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. Se avessi letto prima il disclaimer, non sarei cascato, come invece poi ho fatto, nella trappola narrativa del monologo. Bravo Ivan Talarico che ci racconta la storia ben congegnata di questa cantautrice geniale e sfortunata, a cui tutti i cantautori italiani più grandi hanno depredato testi e canzoni, soprattutto quelli in area genovese, De Andre’, Gino Paoli, Paolo Conte… È piuttosto scioccante come spettacolo perché Talarico porta sul palco le prove di quanto ha scoperto, ci fa ascoltare le canzoni di lei e quelle “copiate”. Certo non sono uguali, certo le conosciute sono anche migliori, ma venire a sapere che La canzone di Marinella è rubata da una canzone “piuttosto simile e in certi passaggi identica” di questa autrice, fa piuttosto male. Tutto alla fine si risolve con un patafisico svelamento e il pubblico, io per lo meno, si risveglia da quello che stava diventato un incubo, seppure raccontato con leggerezza e ironia. Chiaro il messaggio politico: raccontata bene e con tanto di prove (anche se false) il pubblico, cioè noi, si beve qualsiasi cosa.
Il secondo spettacolo della giornata mi è piaciuto moltissimo. Just walking è una passeggiata urbana con cuffie nelle orecchie dove una voce recitante ci parla del ruolo del cammino nella nostra cultura (Da Il Sogno del Cammino, di Antonio Moresco). Un’ora e mezza di camminata, per essere precisi diversi tipi di camminare, per Sansepolcro. Dai binari morti della stazione, al magnifico prato della Fortezza vicino agli orti sociali, passando per la piazza, la periferia, la strada, il centro. Camminare, camminare insieme, camminare per cambiare il mondo, come la marcia su Washington di Martin Luter King o alla meno nota marcia notturna di migliaia di italiani che, dopo i fatti di Genova del 2001, si riappropriano della democrazia in un paese addormentato che ha rischiato di diventare una dittatura.
Il terzo spettacolo, se devo essere onesto, mi è piaciuto meno. Cinque performer cercano di trasformare la vergogna del proprio corpo in un movimento potente e generativo, dice la guida. In sostanza, cinque ballerini, tre donne e due uomini, nudi sul palco e con il pubblico molto vicino. Corpi nudi esibiti con sfrontatezza: genitali, ani, seni, ma anche sudore, fatica, capelli bagnati (dal sudore), peli, schiene e sederi. Non credo, però, che l’esperimento sia riuscito. All’inizio può risultare “forte” per qualcuno, ma oggi siamo in realtà circondati da una nudità, per così dire, pornografica, che un po’ ci stanca. Qui in Italia abbiamo qualche riserva sulla nudità pubblica, ma in Germania, per esempio, essere nudi in una sauna è visto come naturale, nudi davvero, senza asciugamani a coprire le parti intime. E infatti, in questo spettacolo avviene quello che succede per chi entra in una sauna tedesca per la prima volta: si rimane un po’ vergognosi i primi 5 minuti per la propria e l’altrui nudità e poi non ci si fa più caso. C’era questa cosa, poi, che i performer non erano degli adoni, ma delle persone normalissime. Anche forzatamente, visti i peli di ascelle, pubi e gambe. Ecco, io credo che sia una ideologia questa: non un atteggiamento ribelle, ma conformista. Sono anni che l’ultima tendenza americana, la cosiddetta "woke", ci tormenta con queste donne non depilate, per qualche motivo libertario o paritario. Ma sono appunto cose che funzionano solo laggiù; le donne si depilavano anche nell’antico Egitto, ai tempi di Pericle e nell’impero romano, mentre non si depilavano in altre epoche (negli anni ’80, per esempio), ma non c’era in questi atteggiamenti la volontà di stupire o scandalizzare o, peggio, andare contro le convenzioni. Non è mai esistita nessuna convenzione, o peggio, imposizione sui peli di uomini e donne, in realtà; solo mode. E così per i ballerini o cantanti non belli, con la cellulite o la pancetta, in virtù di un certo ideale di normalità non atletica. Shaking Shame io l’ho visto come uno spettacolo per gli Stati Uniti, che vorrebbe appunto essere di moda in quelle terre desolate, dove una vagina o un pene scandalizzerebbero qualcuno, dove la donna con i peli sotto le ascelle incontrerebbe l’approvazione ideologica di qualcun altro. Ma, al di là di queste che sono considerazioni mie, lo spettacolo ha ricevuto molti applausi, segno che la performance e il coraggio dei ballerini sono stati apprezzati.
Ritrovo gioia nell’ultimo spettacolo che ho visto quest’anno, Dioscures. Un balletto finalmente, con due ballerini splendidi anche fisicamente (c’è qualcosa di male nella bellezza?) Una storia raccontata attraverso la danza, con leggerezza, ironia e tanta arte. Il mito ancestrale dei Dioscuri, diffuso in tutto il Mediterraneo, antichissimo e complesso. Leda, sedotta dal cigno Giove, che giacendo con il marito Tindaro nella stessa notte, genera due gemelli di cui uno è immortale e l’altro mortale. Morto Castore, Polluce chiede a Zeus di condividere la propria immortalità con il fratello. Giove acconsente e così i fratelli trascorrono metà dell’anno sull’Olimpo e l’altra metà nel regno dei morti. Il gemello, il doppio, la tensione tra il desiderio di immortalità e l’inevitabilità della morte, il sacrificio per raggiungere una rinascita. Di questo si parla da millenni. Bravissimi Thibaut Michele e Ebène, i due ballerini, per la coreografia di Marta Izquierdo Muñoz.
In conclusione, due giorni veramente stimolanti, peccato non aver potuto vivere l’intero festival Kilowatt che si snoda in poco più di una settimana, dal 12 al 20 luglio. Un’offerta di livello molto alto, forse non tutto mi è piaciuto, ma questi sono pareri miei. Devo ringraziare anche l’organizzazione del festival, il trattamento che ho ricevuto e l’attentissima Maria Gabriella Mansi che mi ha supportato, si può dire, in ogni momento. Complimenti a tutto lo staff, ai ragazzi e alle ragazze.
L’unica attenzione che mi sentirei di far presente è di non far scadere il festival in una rassegna, anche se di livello. Il festival ha prima di tutto un’anima, ruota intorno a un progetto. Non deve essere una vetrina di nomi noti, non deve riportare spettacoli che già calcano altre piazze. Il kilowatt ha la forza per distinguersi da altre e più famose rassegne e questa è l’unica salvezza per un festival oggi in un paese come l’Italia che conta migliaia di manifestazioni in tutta la penisola, molte decisamente deboli.
Il tema di quest’anno era la moltitudine e la contraddizione, preso da una frase di Walt Whitman. Molto azzeccato e molto difficile. Io spero davvero che il Festival continui su questa linea, che non diventi accondiscendente verso il pubblico. Parafrasando Wittgenstein, verrebbe da dire: Si potrebbe dare un prezzo alle nostre azioni. Con cosa si pagano le nostre azioni? Io credo così: con il coraggio.
Leonardo Tonini
Compagnia Lombardi Tiezzi // La belva nella giungla - film 40’
Luigi Presicce // Trittico 2 Sansepolcro: La notte - arte visiva 2’
Davide Grillo // Come se niente fosse - teatro 60’
Dovidas Strimaitis // A duet - danza 45’
Compagnia Lombardi Tiezzi // La lunga strada di sabbia - teatro 75’
Ivan Talarico // La cantautrice fantasma - teatro 60’
Campsirago Residenza & Michele Losi // Just walking - Teatro urbano 100’
Melyn Chow & Frascati Producties // Shaking shame - danza 60’
Marta Izquierdo Muñoz // Dioscures - danza 50’
Le foto sono di Luca del Pia, tranne “Come se niente fosse” che è di Elisa Nocentini.
Si ringrazia Maria Gabriella Mansi e tutto lo staff di Kilowatt Festival 2024 per il sostegno e la disponibilità.